La conoscenza avvelenata

La conoscenza avvelenata

Da “Le mille e una notte” a “Il nome della rosa”

  • Ezzet Elkamhawy
  • Traduzione: Hussein Mahmoud

Nel gennaio del 2007 ci ha visitato in Egitto lo scrittore   Antonio Tabucchi in occasione della fiera internazionale del libro del Cairo e l’Italia ospite d’onore. L’ho incontrato e intervistato, un’intervista  pubblicata su Akhbar al Adab, in cui gli ho posto una domanda avvelenata: cosa ne pensi dello scrittore Umberto Eco? Egli ha risposto: ha dei romanzi  buoni scritti dal computer!

I giornalisti sono abituati a “fregiare” le loro interviste con una domanda avvelenata, per strappare dall’intervistato una risposta altrettanto avvelenata.  È un aperitivo appetitoso per il lettore, come le spezie per la cucina. Ma ho fatto la domanda a Tabucchi, non come giornalista, bensì come  romanziere.  Mi trovo più vicino a Italo Calvino e Antonio Tabucchi, più che a Eco.

In linea di  principio sono dubbioso riguardo al valore dei libri voluminosi, anche se ha vinto un premio il mio libro più lungo e non il più breve!
Si dovrebbe prcisare che il dubbio non significa rifiuto totale?

Ci sono libri voluminosi  che sono allo stesso tempo grandi, basta pensare a “Don Chisciotte”, la madre dei romanzi di questa dimensione, nondimeno “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij e “Al Harafish” di Naghib Mahfouz. Ma il romanzo di Eco “Il nome della rosa” sarebbe stato una delle grandi opere se non fosse così perfetto.

Gli manca il pregio di essere imperfetta, una virtù che caratterizza fortemente l’arte.  Lo scrittore italiano si è avvalso delle sue conoscenze filosofiche e critiche, il suo discorso è pieno  tutto di quello che si deve e quello che non si deve dell’arte, della morale e delle tentazioni. Lo scrittore sembra pensoso, con una conoscenza molto approfondita  sulla  storia della Chiesa e dei monasteri grazie ad una sua cultura erudita e alle risorse del computer, se  vogliamo considerare l’ironia di  Tabucchi  sul serio.

Il romanzo si apre, sfruttando la cultura del ideatore  dell’Opera aperta, una cultura fatta di un insieme di semiologia, architettura, musica e religione comparata, ma beneficia anche di tecniche narrative molteplici, aperte alla tradizione culturale del mondo, compreso il patrimonio narrativo orientale, soprattutto arabo.

Il romanzo è basato, come è noto, su un complotto poliziesco progettato per svelare una serie di misteriosi omicidi in un monastero appartato dell’ordine dei Benedettini, in cui c’è una biblioteca progettata come un labirinto alla maniera di Borges, il quale riprende l’idea dalla struttura della torre di Babele e dai pericolosi edifici abitati da jinni ne Le mille e una notte.

Tale trama da giallo appare come una tecnica mascherata per creare confusione, perché è una tecnica spesso usata nelle novelle leggere, opposta al genere del tipo di romanzo de  Il nome della rosa con tutto quello che  contiene in termini di pensieri, di conoscenza, di riflessioni sull’arte e di polemiche tra i monaci riguardo  la fede.

Tecnica che denota tanta leggerezza semplicistica che viene utilizzata da Eco come una trappola per catturare un contenuto molto profondo ed intellettuale. Ha scelto questo tipo di struttura di suspense per soddisfare ampi segmenti dei lettori oppure come una sorte di sfida ironica contro la serietà medievale che temeva l’ironia   considerata come nemica della religione?

Non so come e perché Eco ha scelto il genere del romanzo storico come “pelle esteriore” per il suo romanzo; forse egli stesso non è cosciente, c’è un buio tra causa ed effetto,o come ha detto Calvino in una delle sue lezioni «Per quali vie l’anima e la storia o la società o l’inconscio si trasformano in una sfilza di righe nere…» in un romanzo voluminoso, nel quale la leggerezza della struttura non corrisponde al pesantezza del contenuto e della realtà ideata in modo molto grave e triste.

Un altro espediente utilizzato da Eco, come se volesse prendere le distanze dall’accusa di aver scritto lui il romanzo, è lo stratagemma di ritrovare un manoscritto per dare più credibilità al lettore. È  la più antica tecnica utilizzata in decine di romanzi fin ad oggi, da quando l’utilizzò Cervantes nel suo capolavoro.

All’inizio del romanzo Eco afferma che ha trovato un manoscritto redatto da un monaco di nome Adso, sui fatti del misterioso omicidio commesso in un monastero medievale anonimo, su cui  indaga il suo maestro, Gulielmo. Ma Eco fa indagare attraverso un labirinto di dettagli, che forse negano  più che affermare l’esistenza del monaco, del monastero e del racconto stesso.

Il  primo ad essere visto è un libro, scritto dall’abate Vallet, intitolato ” Le  manuscript  de  Dom  Adson  de  Melk”,  che serve come un capitolo introduttivo, ma subito  ne mette in dubbio l’esistenza storica, della quale non ha trovato nessuna altra traccia in altre fonti, durante i suoi viaggi tra la Francia, la Repubblica Ceca e l’Italia. Pertanto dobbiamo sottometterci alla storia così come viene tradotta dal libro del abate, che riporta il testo del manoscritto.

Mathis Gothart Grünewald
Mathis Gothart Grünewald

Possiamo vedere in questo espediente come un desiderio da parte di Eco di rimanere fedele alla sua teorizzazione dell’opera, ovvero del testo aperto. Possiamo vederlo come un parallelismo tra la struttura architettonica misteriosa del monastero.  Ma la possiamo vedere anche  come quello che vediamo in tutti gli autori che hanno usato lo stesso espediente,  cioè una  tecnica che oscilla tra il desiderio di dare credibilità ad un fatto per illudere il lettore e la consueta mania umana del possesso che rende l’autore molto attento a riferire l’ideazione dell’opera solo a sé stesso.

In ogni caso, il romanzo narra semplicemente  che il monaco Gulielmo andò ad un monastero all’inizio del terzo decennio del XIV secolo per risolvere un conflitto tra il re e il Papa, quindi abbiamo la possibilità di leggere una pagina della storia della Chiesa e il conflitto politico in Europa quando il  pontefice  era ancora ad Avignone. E in quel periodo che gli omicidi misteriosi ebbero luogo nel monastero.

Essendo colpito dalla sua intelligenza, l’Abate incarica il monaco di indagare sulle misteriose morti e infine scopre il segreto,  penetrando nel labirinto della biblioteca e scoprendo nella sala “Finis Africae” il luogo dove il cieco venerabile abate Jorge  ha custodito il manoscritto fatale (l’ultima copia rimasta del secondo libro della Poetica di Aristotele), che tratta della commedia e del riso, cose da evitare a suo parere. Jorge ha letto il libro prima di  essere colpito di cecità, e lo ha avvelenato per uccidere chiunque che tenti di leggerlo.

Essendo colpito dalla sua intelligenza, l’Abate incarica il monaco di indagare sulle misteriose morti e infine scopre il segreto,  penetrando nel labirinto della biblioteca e scoprendo nella sala “Finis Africae” il luogo dove il cieco venerabile abate Jorge  ha custodito il manoscritto fatale (l’ultima copia rimasta del secondo libro della Poetica di Aristotele), che tratta della commedia e del riso, cose da evitare a suo parere. Jorge ha letto il libro prima di  essere colpito di cecità, e lo ha avvelenato per uccidere chiunque che tenti di leggerlo.

Jorge aveva paura di Aristotele, paura del riso considerandolo come emozione diabolica, sottolineando sempre che Cristo non ha mai riso,  e che quindi questo libro potrebbe mettere in pericolo secoli di conoscenza e di fede cristiana.

La conoscenza è potere, perciò l’abate non ha distrutto il libro, ma, dopo averlo letto, l’ha custodito, assediato, per mantenerlo come una dimostrazione della sua superiorità rispetto agli altri. Quindi decide di tenerlo celato nel più lontano luogo del labirinto libresco, mettendolo sotto la sua autorità e uccidendo ogni monaco che aspira ad possedere questo potere!

Questo stratagemma ha origine  in uno dei primi racconti de “Le mille e una notte”, in  il protagonista è un medico persiano di nome Dubàn che si reca alla corte del suo re Yonan, gravemente ammalato di lebbra. Con un astuto sistema e con l’aiuto di una polvere magica, Dubàn riempe lo scettro con la polvere ed chiede al re di tenerlo in mano, muovendo il suo braccio così che sudando  la sua mano e la droga passi  nel suo corpo.

Il re guarisce in un giorno il e lo ricompensa e continua a ricompensarlo con tantissimi doni. Un visir geloso e perfido allora avvicina il re, informandolo che Dubàn gli aveva salvato con una polvere cos’ come potrebbe ucciderlo con un’altra. Il re credette davvero di essere in pericolo per causa del medico Dubàn e così decide di farlo uccidere immediatamente.

Il medico, non trovando alcuna via di fuga, implorò il re di concedergli ancora un giorno per liberarsi dai debiti, lasciare il suo testamento e  regalargli un prezioso libro che lo avrebbe protetto per tutta la vita, ma da aprire solo dopo che la sua testa sarebbe stata posta sopra il pregiato lino che ricopriva l’opera, dopo essere stata mozzata. Il giorno seguente Dubàn viene decapitato e la sua testa, come ordinato, viene posta sopra la preziosa stoffa, d’un tratto questa si anima e comincia a parlare, ordinando al re di arrivare alla pagina sei del libro. Il re, vedendo che queste erano incollate, inumidendosi il dito, incomincia a voltare le pagine, e muore avvelenato.

Il nome della rosa si conclude con un confronto tra il monaco investigatore e l’abate Jorge, adirato per l’accusa di omicidio  Joge chiede al  monaco investigatore di leggere il libro: “Su, leggi, sfoglia. E’ tuo, te lo sei meritato.” e poi si suicida mangiando le sue pagine, ma non si limita a suicidarsi usando il libro della commedia, ma  riusce anche a colpire la mano del assistente del Monaco e far cadere la lanterna mettendo a fuoco la gigante biblioteca.

E naturalmente Adso e Gulielmo sopravivono , per  narrare la storia uno  e   perché era diverso dagli altri monaci che erano presi dalla curiosità,l’altro; mentre è morto  Jorge che metteva la sapienza in dubbio come il re delle notti arabe.

Possiamo considerare l’idea della conoscenza avvelenata o assassina nei due testi in più modi:

– la conoscenza può essere avvelenata se si interpreta letteralmente  il testo cioè il piano di mettere il veleno sulle pagine deltesto,
– il punto di vista del dell’abate Jorge appassionato davvero della sapienza, ma che considera ogni altra    sapienza contraria a ciò che crede, come avvelenata,

– il punto di vista di Gulielmo che considera la sapienza unilaterale di Jorge, come la vera sapienza avvelenata,

Questa ultima considerazione la possiamo trovare sulla lingua del monaco investigatore, che aveva investigato tanti casi di investigazione  svelandone tanta ingiustizia. Egli parlando al suo discepolo in tono allarmante disse: “Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro. […] Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità…”

È forse l’eco della voce dello stesso autore mettendo le sua propria visione sulla lingua del monaco illuminato, incaricato, fin dall’inizio del romanzo, di portare le idee legate più alla sua carriera di intellettuale che agli eventi del romanzo.

Il filosofo ha instillato la sua retorica da intellettuale all’interno della struttura di un romanzo poliziesco, come fanno le aziende farmaceutiche quando coprono le sostanze attive con un sottile strato di zucchero, ma l’onere di tutte queste idee il romanzo  di Eco non poteva permetterselo. Il nome della rosa “sembra” come le pillole con un troppo esplicito fine, mentre nell’esempio, di cu sopra,  la polvere magica dallo scettro attraversava in modo semplice, il corpo del re delle Notti, come passava il  tessuto narrativo.